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Banche e imprese, le proposte della Svimez per superare le criticità

Superare le criticità dei rapporti banca–impresa e dei connessi rischi di instabilità del sistema con la predisposizione di una strategia straordinaria di alleggerimento degli attivi bancari dal cumulo dei crediti deteriorati. E’ il presuppossto da cui parte la Svimez nel rilanciare le proposte per il settore del credito. Proposte contenute in un articolo sull’ultimo numero della Rivista Economica del Mezzogiorno, diretta da Riccardo Padovani ed edita dalla SVIMEZ, intitolato “Politica monetaria, credito e squilibri territoriali in Europa”, di L.Giordano (Consob) e Antonio Lopes (Università di Napoli “L’Orientale”).

Va ribadito, si legge,  che per la stragrande maggioranza delle imprese di piccole e medie dimensioni, soprattutto nel Mezzogiorno, il credito bancario rappresenta la principale modalità con cui si finanzia l’attività produttiva. A tale riguardo le azioni da intraprendere dovrebbero andare oltre le misure già messe in campo, contrattando con le istituzioni europee più ampi margini di intervento tenuto conto che anche in altri paesi, si pensi al Portogallo, si è continuato a fare ricorso a procedure di risoluzione delle crisi bancarie diverse dal bail in, che comportano un coinvolgimento attivo del settore pubblico. Attualmente il fondo Atlante, partecipato anche da soggetti pubblici, oltre che da un pool di banche, ha due obiettivi operativi: da una parte quello di contribuire alla ricapitalizzazione degli istituti in difficoltà e dall’altro quello di rilevare una parte dei prestiti deteriorati attraverso la sottoscrizione di tranche mezzanine delle emissioni di ABS rivenienti dalla cessione e cartolarizzazione del portafoglio di crediti in sofferenza. Anche se il fondo si può indebitare, aumentando così i mezzi a disposizione, resta molto ampio il divario tra esigenze di ricapitalizzazione e di salvataggio e i fondi stanziati. Il fondo è quindi molto lontano dal coprire le esigenze attuali.

Tra i partecipanti al Fondo Atlante sarebbe presente anche la Società di gestione delle attività (Sga), che a suo tempo rilevò le partite in sofferenza del Banco di Napoli. Questa società, ora rilevata dal Ministero dell’Economia, per vent’anni ha operato recuperando i crediti del Banco e ha realizzato oltre 500 milioni di utili. Questi proventi della società che ha recuperato i crediti, oltre alle plusvalenze realizzate con la cessione del Banco di Napoli, hanno compensato i sacrifici che a suo tempo furono sopportati dal Tesoro per il suo salvataggio.
Va osservato che nella vicenda – tutt’altro che lineare – con la quale si giunse alla sostanziale liquidazione del Banco di Napoli come autonomo istituto di credito radicato nel Mezzogiorno, è stata la Fondazione Banco di Napoli e quindi la società civile meridionale, che allora si ritrovò con il capitale azzerato, a sopportare i costi maggiori. Dunque la cessione della Sga potrebbe essere l’occasione per la Fondazione di vedersi riconosciuta una parte di quel valore. Una parte di quei diritti che vennero cancellati al momento del salvataggio. A tale riguardo si potrebbe riconoscere alla Fondazione una quota, anche simbolica, che a sua volta la Fondazione potrebbe investire in Atlante. Quest’ultimo, infatti, dovrà occuparsi anche dell’acquisto di sofferenze che ora solo al Sud, come si è visto, superano i 40 miliardi.

La garanzia pubblica si conferma come il principale strumento in grado di contrastare – molto parzialmente – i fenomeni di credit crunch e di puntellare la stabilità del sistema nelle operazioni di riqualificazione degli attivi ponderati per il rischio (si pensi alla Garanzia sulla Cartolarizzazione delle Sofferenze GACS predisposta dal Tesoro) In questa direzione andrebbe articolata e coordinata a livello centrale un’azione di rafforzamento dello strumento dei Confidi che sono società di consorzi privati, in parte ricettori di fondi pubblici, deputati ad offrire garanzie alle banche che erogano il finanziamento alle imprese.

Vanno segnalati diversi interventi da parte di vari soggetti, tra cui la Cassa Depositi e Prestiti e svariate amministrazioni regionali, volti a potenziare strumenti di finanza innovativa (private equity e venture capital) con i quali facilitare l’accesso al mercato dei capitali delle imprese italiane. L’accesso al mercato dei capitali andrebbe favorito anche con strumenti che vadano al di là della quotazione delle piccole-medie imprese italiane – soluzione non sempre compatibile con il vincolo di incentivi delle realtà imprenditoriali italiane – e che riconosca nell’aumento della trasparenza e della conoscibilità delle imprese (rating, analisti, repository di dati di bilancio, etc.) uno dei volani per lo sviluppo della domanda di strumenti finanziari che investono direttamente nelle imprese. Occorre rilevare che, al contrario di quanto si è sperimentato in altri paesi, in Italia l’accresciuto intervento a sostegno delle condizioni finanziarie delle imprese, in particolare quelle più piccole, non si è sviluppato all’interno di un quadro organico di politica industriale nel quale la priorità fosse rivolta al sostegno delle imprese localizzate in determinate regioni e/o operanti in settori ritenuti strategici per lo sviluppo dei territori coinvolti. Le misure messe in campo dalle diverse amministrazioni centrali e locali, sono state affidate a enti o soggetti operanti in maniera talora indipendente gli uni dagli altri; una tale frammentazione ostacola un efficiente utilizzo dei diversi strumenti da parte delle imprese per cui la quota di risorse effettivamente giunta alle imprese localizzate al Sud è stata molto modesta.

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