Pubblichiamo questo articolo tratto da Repubblica perché pensiamo che l”emergenza sia reale.
Di Concita De Gregorio
Questa storia non riguarda me, riguarda voi. Servono sei minuti di attenzione, so che sono molti. Vi chiedo di rischiare.
Il tema è la libertà di informazione. Non vi fermate. Pensate allo spot del Super Bowl, quello del Washington Post: “La democrazia muore nell’oscurità”. È su Youtube: “C’è qualcuno che racconta i fatti a ogni costo”. Gli americani fanno queste cose meglio di tutti al mondo. “La conoscenza ci dà potere. Sapere ci aiuta a decidere. Conoscere ci libera”. I giornali si fanno per chi è governato, non per chi governa.
Nella pratica (anche da noi, come ovunque) la minaccia a chi “racconta i fatti a ogni costo” arriva in due modi. Diretto. Una pistola puntata. È facile da riconoscere. C’è un criminale che dice: ti ammazzo. C’è qualcuno da proteggere, una scorta da dare. “Non si può togliere”, quattro parole. “Restituitela”, una parola. Sono tanti i giornalisti coraggiosi sotto scorta. Non serve nominarli, vi vengono a mente subito, siamo pronti in ogni istante a difenderli.
Secondo modo. Minaccia economica. Subdola, invisibile. Non toglie la vita, toglie quello che serve per vivere. Per indicarla non c’è un hashtag che generi like. Il potere ha dalla sua una legge di settant’anni fa. 1948. Consente a chi ha più soldi di minacciare chi ne ha meno: ti tolgo tutto, e poi vediamo se hai ancora voglia di parlare. Quando un giornale fa il suo lavoro il potere prova a zittirlo. Ci sono due modi. Primo: querela per diffamazione. Hai detto di me il falso, ti querelo. La querela è penale, dunque personale: si può querelare solo chi ha scritto la cosa. Il tribunale accerta e chi ha sbagliato paga. (Mi costa parlare di me, ma: in trentacinque anni di lavoro non ho mai perso, personalmente, una causa per diffamazione).
Secondo modo: la causa civile per risarcimento danni. Questa si può esercitare anche verso chi ha responsabilità “oggettive”: l’editore, che pubblica, e il direttore, che ha il dovere di controllare quel che si pubblica. Si chiama responsabilità per omesso controllo ed è giusta (anche se in giornali di 40 pagine è tecnicamente impossibile controllare tutto. Il direttore delega. Se sbaglia a delegare paga). Chi ha molto potere usa come minaccia le azioni civili. Fa continuamente causa a chi gli dà fastidio.
Esempio: un presidente del Consiglio, poniamo, miliardario, fa causa a un sito chiedendo ogni volta un milione di euro. Lo fa anche se sa di aver torto: anzi, soprattutto. Si dicono “azioni temerarie”. La Fnsi, quando Santo della Volpe la guidava, se ne è occupata strenuamente. Poi Ossigeno, piccola associazione di grande coraggio. Intimidazione, perché i soldi sono pignorati in attesa del giudizio definitivo. Cioè: intanto ti congelo la somma, poi aspettiamo di vedere chi ha ragione. Possono passare dieci, vent’ anni. Chi deve garantire? L’editore, naturalmente. Perché se l’editore guadagna non ripartisce gli utili tra i dipendenti. Ugualmente, se perde non può scaricare i suoi debiti. Rischio d’impresa, si chiama.
Ora: quella legge di 70 anni fa dice che il cronista, il direttore e l’editore sono responsabili “in solido”. Vuol dire che ogni parte deve garantire per l’intero. Se ci sono tutti si divide, se qualcuno manca: quello che c’è paga per tutti. È il mio caso: pago da otto anni la parte dovuta dall’editore. Questa legge deve essere cambiata. Mette in pericolo chi scrive e chi legge, voi. Settant’anni fa il mondo era un altro. Non c’erano Internet, il web. C’era il lavoro dipendente tutelato. Oggi un cronista che denuncia la tratta di esseri umani, le mafie, la corruzione politica lavora spesso “pagato a pezzo”. Nessuno è in grado di sostenere personalmente l’offensiva economica dei poteri che denuncia. È un sistema che dissuade il giornalista dal “raccontare i fatti a ogni costo”.
Due parole, infine, sul caso Unità. Sono stata chiamata a dirigere il giornale da Renato Soru, l’editore, nel 2008. Non avevo tessere di partito, mai avute. Mi sembrava giusto fare la mia parte, diciamo così, di “servizio civile”. Non mi è convenuto: guadagnavo di più prima, ho guadagnato – dopo – assai meno degli uomini che fanno lo stesso lavoro. L’ho diretto dal 2008 al 2011. In quei tre anni era al governo il centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Il giornale ha dato fastidio e ha subìto moltissime azioni temerarie.
Negli anni successivi è andato al governo il centrosinistra. Le cause civili contro l’Unità sono diminuite, è comprensibile. Dal 2008 al 2011 l’Unità ha condotto battaglie di mobilitazione civile, grazie a una redazione e a collaboratori generosi e appassionati, che sono arrivate a coinvolgere dieci volte il numero dei suoi lettori. Quando vendeva 50mila copie raccoglieva mezzo milione di firme. Di tante campagne e per tutte voglio ricordare quella condotta da Alessandro Leogrande, che scriveva per il giornale, contro la legge Bossi-Fini: portò in piazza migliaia di persone. Dopo di me e prima della chiusura dell’Unità sono passati sette anni e sei direttori. Dal 2011 ho affrontato in tribunale centinaia di udienze e pagato in attesa di giudizio somme dovute dall’editore “cessato”.
L’editore, Nie, difatti non c’è più. Se anche facessi, come dovrei, azione di rivalsa non troverei nessuno. Chi ha intentato causa e pignorato si chiama Silvio o Paolo Berlusconi, generale Mori, Angelucci, Mediaset, potrei continuare ma è chiaro. In molti casi, nei vari passaggi di proprietà del giornale, chi aveva una causa in corso e non faceva più parte della redazione non è stato avvisato delle scadenze giudiziarie e non si è potuto difendere, trovandosi direttamente di fronte ai pignoramenti. Chi era Nie? Formalmente non il Pd.
È tuttavia arduo sostenere, come alcuni dirigenti in questi anni hanno fatto, che il Pd sia estraneo all’Unità: sarebbe incomprensibile anche per gli elettori. Quando Renzi era al governo è stata avanzata una proposta di riforma della legge del ’48: si è “arenata” al Senato. In questi giorni è stata ripresentata. Auguriamoci che abbia miglior sorte in condizioni ostili. Molti mi hanno chiesto in questi giorni perché abbia aspettato tanto a raccontare. È stato perché quel che la vita ti mette di fronte si affronta, direi. Perché la giustizia si cerca in tribunale. I soggetti istituzionali, chi doveva sapere, sapeva. Mi hanno chiesto come mai non mi sia fatta tutelare. L’unica tutela che conosco è quella del rigore nel lavoro. “Dietro ogni sospetto c’è una cattiva intenzione repressa”, ci diceva a scuola la prof. Sarebbe un bello slogan per uno spot del Super Bowl. Forse un po’ criptico in tempi di attenzione labile, ma bello.