di Ignazio Rocco di Torrepadula
“Chi ha visto il piano regolatore / ha detto: bravo!, ma ride di me… / Sperequazioni e intrallazzi privati / Io sono il primo col pollice in giù”. Anno 1975. Edoardo Bennato pubblica il suo terzo album, “Io che non sono l’Imperatore” (a cui appartengono i versi in apertura). In copertina c’è un progetto per la Metropolitana di Napoli che il musicista, all’epoca studente di architettura, aveva proposto come tesi di laurea. Nel 1975 si stavano elaborando i progetti. Ma i primi 4 chilometri e le prime 6 fermate arriveranno nel 1993, 18 anni dopo, e 21 anni dopo la creazione della società dedicata MN (che è del 1972); il primo collegamento con il centro storico arriverà dopo altri 8 anni, nel 2001. E il completamento del tracciato nel centro storico, fino alla Stazione Centrale, dovrà attendere altri 12 anni. Complessivamente 41 anni per la prima linea (tuttora non completamente finita). Questo è un esempio, non l’unico, dei veri motivi dell’arretratezza del Sud rispetto al resto del Paese. Non assenza di soldi ma impotenza a usarli.
Da napoletano, oltre alla metropolitana, penso spesso all’ex area siderurgica di Bagnoli, che quarant’anni fa, da ragazzini, guardavamo dall’alto quando andavamo in Vespa al Virgiliano, abbracciando con lo sguardo i Campi Flegrei e il mare, e immaginandoci come sarebbe cambiato il posto dopo l’abbandono dell’acciaieria e la riqualificazione, della quale si parlava già all’epoca. Forse se lo chiedono anche gli adolescenti di adesso, perché il progetto è tuttora fermo. D’altronde l’Agenzia della Coesione nel suo Rapporto sui tempi di attuazione delle opere pubbliche riporta che in media, in Italia, per realizzare un’opera da 100 milioni ci vogliono 16 anni e per un lavoro tra 1 e 2 milioni sono necessari sei anni. In media – indipendentemente dal settore e dal valore dell’opera – sono necessari in Italia 4,4 anni per portare un progetto a conclusione. In questo panorama già sconfortante, per la Campania sono necessari 5 anni, per la Sicilia 5,3 anni.
Nell’ambito del lavoro svolto dall’Associazione M&M – Idee per un Paese Migliore, con Veronica Vecchi, Università Bocconi, abbiamo sviluppato un documento che integra e completa le proposte già avanzate dall’Associazione in materia di PNRR interrogandoci in profondità su come fare in modo che il Sud contribuisca veramente alla ripresa. I gap più significativi dell’Italia (tasso di occupazione, soprattutto giovanile e femminile; produttività; crescita degli investimenti) sono concentrati o prevalenti al Sud. Senza ridurre questi gap, non si riducono i gap italiani. E quindi il recupero di questi gap è una emergenza nazionale, paragonabile, che andrebbe vista, per orgoglio e coinvolgimento emotivo, come la ricostruzione del viadotto Morandi a Genova, ancorché di impatto almeno 50 volte superiore sull’economia del paese. Anche il Sud deve in effetti costruire, in tempi molto rapidi, un ponte. Ma si tratta di un ponte di competenze, capacità decisionali, capacità realizzative, innervato da una ossessione per i risultati.
Nei fatti, il Pnrr che attribuisce al Sud il 40% delle risorse disponibili, una cifra monstre, oltre 80 miliardi di euro a cui si aggiungono i circa 60 dei fondi di coesione, dedicati alle aree sottosviluppate dell’Ue, di cui il nostro Mezzogiorno fa parte. Abbiamo 140 miliardi euro da spendere e perciò, diciamocelo chiaramente: non sono i soldi a mancare per lo sviluppo del Sud. Quello che manca è un sistema per non sprecarne neppure una goccia. Serve un meccanismo di governo ed esecuzione dei progetti di investimento che assicuri maggiore rapidità, efficacia, e impatto sulla crescita. E’ una cosa positiva abbandonare l’approccio di rassegnazione e gradualismo che ha caratterizzato i progetti di modernizzazione del Sud degli ultimi decenni, ma solo se la maggiore ambizione può essere combinata con forti condizionalità di efficienza, pragmatismo e qualità progettuale.
Dobbiamo, inoltre, tenere a mente la lezione del passato. I “Fondi di Coesione” (in cui confluiscono il Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR), il Fondo di Coesione (FC) propriamente detto e il Fondo Sociale Europeo), rivolti principalmente alle regioni europee il cui il livello del PIL pro-capite è inferiore al 75% (o, in altri casi, al 90%) della media europea (quindi anche tutto il Mezzogiorno italiano) non vengono utilizzati. I dati diffusi dalla Commissione Europea sul portale dedicato ci dicono che l’Italia, alla fine del settennio 2014-2020, ha speso solo il 43% dei fondi disponibili, e il 14% dei fondi inizialmente stanziati non è ancora stato assegnato a un programma di investimento. È evidente che si tratta di una macchina che non funziona. E il problema sta nel processo di gestione, completamente affidato al personale amministrativo degli enti locali, mediamente più anziano del resto d’Europa (la metà composto da over 50 contro il 30% in Francia e UK), con solo 4 laureati ogni dieci dipendenti (e per lo più in aree giuridiche o economiche), con competenze limitate di gestione di progetti complessi, e spesso sequestrato da obiettivi di brevissimo termine amministrazioni locali. Certo, la complessità del codice degli appalti non aiuta. Ma, come spesso si è fatto notare e come la tabella mostrata sopra conferma, la fase di affidamento e gara non incide che per una minima parte dei tempi realizzativi.
Un meccanismo di gestione efficiente passa dalla revisione e dal rafforzamento del ruolo dell’Agenzia per la coesione, che potrebbe rafforzarsi e affiancare in modo molto più forte le amministrazioni locali, mettendo loro a disposizione competenze progettuali, tecniche e realizzative, oltre che “formati” standard per la progettazione delle opere pubbliche. Qualcuno potrà vedere questo approccio come un aumento di centralizzazione, e forse in parte lo sarebbe; eppure, condividere tra territori diversi competenze scarse, esperienze e formati realizzativi è una essenziale e irrinunciabile operazione di buon senso economico e organizzativo.
L’assetto è illustrato in maggior dettaglio nel nostro documento. È un assetto che ottimizza le risorse, e infatti non richiede né migliaia né centinaia di persone: si possono immaginare inserimenti previsti inferiori a 50 unità, di altissima qualità. Le squadre saranno composte da tre figure: Leader Specialisti, Leader Attuatori e Leader Territoriali. I primi in seno all’Agenzia e organizzati in cinque unità operative, quattro focalizzate su temi specifici come scuola, infrastrutture di trasporto, investimenti in energia, ambiente, acqua e rifiuti, turismo, la quinta sul supporto ai processi, con competenze finanziarie, esperienza nel co-investimento, conoscenza di procedure di gara, modelli contrattuali, rendicontazione.
I “Leader Attuatori”, sono la figura chiave di questo modello di gestione, l’anello di congiunzione tra i Leader Specialisti e il Territorio. Dovrebbero essere reclutati dall’Agenzia di Coesione, preferibilmente (ma non solo) tra i manager della PA con 15 anni di esperienza e un cv che dimostri rispetto dei tempi e degli obiettivi, oltre che capacità di leadership. I Leader attuatori dovrebbero assicurare la qualità e l’efficacia dei progetti mettendo a fattor comune tra tutti territori le competenze, le esperienze e i formati disponibili a livello centrale; dovrebbero assicurare che la selezione dei progetti avvenga secondo criteri di valutazione rigorosi; avrebbero poi il compito di monitorare l’attuazione dei programmi e dei progetti, misurando sistematicamente i risultati; assicurando il rigoroso rispetto dei tempi senza compromettere l’efficacia e la qualità delle misure; promuovere l’utilizzo efficiente dei capitali, assicurando che le risorse del PNRR siano utilizzate in modo complementare ai Fondi di Coesione e assicurando la massima mobilitazione di capitali privati.
Ai leader Territoriali scelti tra le Amministrazioni Locali, sarebbero attribuite l’esecuzione e il coordinamento con gli attori locali, e la loro partecipazione alle Squadre di Coesione dovrebbe assicurare anche una progressiva diffusione delle competenze attraverso le amministrazioni e i territori.
La nostra è una proposta molto diversa da un approccio commissariale che ha funzionato in maniera ottimale a Genova, ma che non è applicabile a ogni progetto. A Genova intanto ha funzionato per due ragioni: la competenza del commissario scelto e la collaborazione di tutte le entità coinvolte. Ma pensare a un modello commissariale per tutte le opere da realizzare nei prossimi 5 anni è improponibile, oltre che oltremodo costoso.
La nostra proposta è limitata anche perché non affronta il problema dell’economia criminale e dell’illegalità, che forse è il fattore più importante di sottosviluppo e di sofferenza del Sud (e non solo), e rispetto al quale non sono nessuno per potere indicare soluzioni. Personalmente credo che la creazione di un filone di investimenti efficienti, gestiti da tecnici competenti, e che attraggano il più possibile investimenti privati, insieme a una dose di forte aumento della concorrenza e della libertà di impresa, siano tutte leve più potenti di quelle puramente giudiziarie, militari e normative. Ma non è questione che possa esaurirsi in un paper.
La nostra proposta è anche – ne siamo consapevoli – una proposta molto parziale, che non ha l’ambizione risolvere tutti i problemi del Sud, ma si concentra su utilizzare in maniera ottimale le enormi risorse disponibili per investimenti pubblici.
Si potrebbe dire: è solo un intervento organizzativo e di processo per cercare di limitare o evitare gli sprechi. Ma non è poco, secondo noi, e non sono pochi 140 Miliardi di euro. Se usati senza cambiare approccio, il loro effetto potrebbe essere addirittura negativo. Ma se usati senza sprechi, il Sud potrebbe cambiare parecchio.