Il Carbon Market Report 2024, pubblicato il 19 novembre dalla Commissione Europea, conferma che il mercato del carbonio europeo, EU ETS (Emission Trading System) è uno strumento cruciale per la lotta ai cambiamenti climatici. Ma esattamente cos’è l’EU ETS? L’EU ETS è il pilastro della politica climatica europea. Istituito nel 2005 è il primo Sistema per […]
“C’era una volta, neppure tanti anni fa, l’ufficio tradizionale, dove si doveva tutti essere presenti alle 9 al massimo, e dove tutti gli impiegati lavoravano fino alle 18, timbrando un cartellino cartaceo quattro volte al giorno”, spiega Roberto D’Incau , Founder&CEO Lang&Partners, scrittore, headhunter ed executive coach attualmente in tutte le librerie con “Il Lessico della Felicità”, un manuale nato con l’obiettivo di spiegare attraverso 33 parole chiave come affrontare lo stravagante disturbo che è la vita, compresa quella lavorativa. Che spiega:
Il commitment al lavoro c’era, per carità, ma era molto legato anche alla presenza fisica, e a uno stile di leadership tipicamente direttivo, dove il capo era rassicurato se i dipendenti erano fisicamente presenti, e controllabili. Poi arrivò la tecnologia, internet, lo smartphone, le cose cambiarono, ma l’idea che ci debba essere una presenza fisica in ufficio purtroppo ancora resta nella testa di molti: una azienda italiana su due non ha mai preso in considerazione l’ipotesi che i suoi dipendenti possano lavorare con lo smart working. Un dato che non depone certo a favore dell’attenzione alle risorse umane e all’innovazione.
Lo smart working, qui sta l’opportunità e al tempo stesso la difficoltà, non è solo una possibilità tecnologica come si pensa comunemente: in realtà presuppone un approccio manageriale nuovo in cui le persone godono di autonomia nella scelta di dove lavorare (da casa, in un coworking, in un caffè) e di quando lavorare, perché sono responsabilizzati sui risultati e non oggetto di micromanagement come faceva il capufficio di qualche decennio fa.
Quali sono i vantaggi? Per l’ambiente è evidente che far lavorare una percentuale maggiore di persone da remoto (oggi gli smart worker in Italia sono solo alcune centinaia di migliaia) ha un impatto ambientale positivo molto forte: traffico, emissione di CO2, trasporti pubblici meno ingolfati, ecc. Inoltre, lo smart working è percepito come un vero e proprio benefit dai lavoratori, che già in fase di colloquio con noi headhunter porta a preferire le aziende che lo offrono regolarmente.
Per le aziende questa modalità di lavoro è invece il frutto di una nuova cultura manageriale che, a fronte di una maggiore responsabilizzazione del lavoratore, offre più flessibilità e autonomia: lo smart working richiede quindi non solo un cambiamento tecnologico, ma un vero e proprio cambiamento culturale nella leadership. Presuppone infatti una riflessione organizzativa in cui i vecchi modelli di postazione di ufficio fissa e di orario imposto non funzionano più, a fronte dei cambiamenti che il nostro modo di lavorare ha avuto negli ultimi anni, prima fra tutte con la digital transformation.
E’ dimostrato dagli studi, a fronte di questo maggiore empowerment del lavoratore, un impatto positivo sulla produttività, e anche un risparmio di costi: le aziende non devono più prevedere sedi monstre, con una scrivania per ogni singolo lavoratore, ma spazi condivisi più piccoli, sulla base del bisogno effettivo di essere presenti in azienda.
E’ altrettanto dimostrato, da studi americani, che il 75% dei lavoratori lascerebbe volentieri un’azienda che non offre lo smart working per una che invece lo offre ai propri dipendenti. Infine, il pregiudizio che lo smartworker non lavori, paura di manager con uno stile fortemente orientato al micromanagement, è assolutamente infondato: è vero il contrario. Lasciamo queste paure a chi non è abituato a lavorare con la tecnologia e lo stile di leadership che serve alle aziende in questo decennio.