Nino Bellia è alla sua seconda scrittura teatrale, dopo Tutta un’altra storia sull’ indimenticato Angelo D’arrigo, messa in scena nel 2017 a Catania, presso il Teatro Sangiorgi. Ha inoltre composto una video-fiaba in versi, presentata al Teatro Coppola di Catania, il 7 febbraio del 2016, dedicata alla disabilità e all’impegno delle famiglie con persone gravemente disabili (Il viaggio di Piccola Luna e i suoi fratelli); e ancora un poemetto in ottava siciliana dedicato a San Giovanni Battista, nello stile degli antichi “Pueti dâ vara”, nonché due volumetti di racconti satirici sul mondo della scuola (I racconti del risciò). Nino Bellia ha anche realizzato la traduzione in italiano e il commento delle Fiabe popolari di Scordia per il Museo Etno-antroplogico Mario De Mauro e la prefazione al libro di Francesco Grasso Davanti alla porta, dedicato al quartiere catanese di San Berillo. Da insegnante di lettere, Nino Bellia conosce bene la lingua e la letteratura italiana di cui lascia tracce in varie citazioni del copione di Sperduti nel buio. La scrittura del dialetto però non si apprende sui banchi di scuola né s’improvvisa nella redazione di un testo.
Come nasce l’idea di questa drammaturgia e dell’integrazione tra teatro popolare e Opera dei Pupi catanese?
L’idea è nata dal confronto con Elio Gimbo, il regista di Fabbrica Teatro. Parlare con lui della realtà socio-culturale e politica catanese mi ha spinto nella direzione di un omaggio integrale a Nino Martoglio, autentico cantore di Catania, e alla nostra migliore “catanesità”. Non ho avuto alcun dubbio nel coinvolgere i grandi maestri Napoli, i nostri pupari di maggior prestigio e di fama internazionale: chi, più e meglio di loro, è degno di rappresentare quell’identità catanese così radicata nella tradizione popolare, ma altrettanto proiettata verso il futuro, capace di rinnovarsi, senza perdere i propri connotati?
Il titolo Sperduti nel buio, già del film girato da Nino Martoglio nel 1914, oltre che un omaggio alla sua arte, ha altre motivazioni?
Il titolo originario era “Ritrovati nel buio”. Volevo esprimere il valore della coscienza e dell’arte, ai tempi di Martoglio come adesso, pur in un contesto di complessive e persistenti tenebre: non è evadendo dal buio e dall’inferno catanese che si cambia la realtà. Accettare un cammino “ô scuru ô scuru” (per dirla con Martoglio) significa riscoprire non solo la nostalgia della bellezza deturpata e perduta, ma provare a risanarla, a recuperarne il beneficio, a riconoscere e distinguere il bene e il male, a stipulare alleanze positive, a rilanciare la volontà di un rinascimento etneo. Poi, d’accordo col regista, ho optato per lo stesso titolo del film, che avrebbe reso più immediato il richiamo al grande Belpassese.
Dove ha origine la tua conoscenza del dialetto catanese? Si rifà a qualche autore o è la semplice trascrizione della lingua che hai appreso da cittadino etneo?
Ci sono le mie origini “cifalote”, il ricordo di modi di esprimersi di mia madre, l’ascolto della parlata dei quartieri, quel senso dell’ironia che non è solo dei civitoti, ma che ricordo anche in catanesi di varia estrazione sociale: una capacità di giocare e divertirsi con le parole, un po’ storpiandole e riducendole alla pronuncia e al significato più prossimi, un po’ trasformandole intenzionalmente, per poi dimostrare una padronanza sorprendente e autorevole dell’italiano stesso; nel linguaggio che ho utilizzato per questo lavoro, ho provato a sintonizzarmi con lo stile dei personaggi martogliani, don Procopio e Cicca Stonchiti, come di Peppininu, il pupo catanese “dô Futtinu”. In particolare, nelle terzine infernali ho cercato di emulare l’espressività che si apprezza nell’ “Inferno di don Procopio Ballaccheri” e in “Per le vie di Catania” dove don Procopio fa da esilarante cicerone a due marinai, uno napoletano e uno veneziano. Le citazioni sconfinano nelle battute nuove e viceversa, quasi senza soluzione di continuità.
Questa pièce, sembra riprodurre per Catania il tema del “doppio” anche nell’alternanza tra vena drammatica e vena fortemente comica. La “Catania soprana” e “Catania sottana” così evocata nel copione sembrano ricongiungersi sulla scena teatrale di fronte alla posizione di chi ne denuncia l’ambiguità; di chi, con voce colta o popolare, non si rassegna agli “inferi”. È un teatro, il tuo, di denuncia sociale?
Certo, la denuncia nei confronti degli ignavi, dei politici, dei cavalieri del lavoro, dei mafiosi è un elemento pregnante di questo lavoro, soprattutto in riferimento alla parte bassa, agli inferi catanesi. Mi piacerebbe che nella realizzazione teatrale venissero recuperate alcune sfumature del testo, e che la Catania “soprana” apparisse con più evidenza attraverso alcune icone di quella Catania perduta o sfigurata dagli appalti, dalle scelte economiche corrotte, dalla prepotenza e dall’ottusità. Fanno parte di questa visione le immagini della Torre Alessi, distrutta nel 1963, e dell’Arena Pacini, uno dei teatri-simbolo di una città colta ed elegante, che si è lasciata derubare di una parte affascinante della sua anima…